Associazione culturale fondata nell’anno 2001

da

Anna Poerio

Alessandro Poerio – Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani

La Sortita e gli Ideali del ’48 a cura di Associazione Valdemare Mestre (27 ottobre2012)

Alessandro Poerio, insigne poeta, patriota e conoscitore di numerose lingue, nacque a Napoli il 27 agosto 1802 dal Barone Giuseppe Poerio, patriota ed illustre penalista, e da Carolina Sossisergio.

Nel 1816, dopo la Restaurazione Borbonica, seguì il padre in esilio a Firenze, dove fu ammesso al corso di disegno di figura e al corso di declamazione all’Accademia di Belle Arti. Nel 1819, ricevuta la grazia dal Re, tornò con la propria famiglia a Napoli, dove egli superò l’esame per accedere alla carica di segretario presso il Ministero degli Esteri.

Dopo lo scoppio dei moti costituzionali, si arruolò nell’esercito di Guglielmo Pepe e prese parte alla battaglia di Rieti. Nel 1821 fu costretto, con i suoi familiari ad andare in esilio a Graz.

Dopo aver ottenuto il trasferimento da Graz a Trieste, nel 1823 la famiglia Poerio andò in esilio a Firenze, dove iniziò per Alessandro un periodo di arricchimento spirituale e culturale. Nel 1825 il Poerio intraprese il viaggio in Germania, dove si recò per motivi di studio e soprattutto per conoscere Goethe, il quale lo ricevette con molta cortesia nella sua casa a Weimar. Durante la permanenza in Germania, che si protrasse fino al settembre 1826, Alessandro Poerio tradusse l’Ifigenia e La Sposa di Corinto di Goethe ed ebbe modo di seguire le lezioni universitarie di insigni professori all’Università di Gottinga e di Lipsia.

Tornato a Firenze, nel 1826, entrò a far parte del circolo culturale di G. P. Vieusseux, dove fece amicizia con G. Battista Niccolini, il Giordani, il Capponi, il Manzoni, il Giusti, Niccolò Puccini, il Mamiani ed Antonio Ranieri. Nel 1827 incontrò per la prima volta Giacomo Leopardi e tra di loro iniziò una profonda amicizia che durò fino alla morte di quest’ultimo.

Dopo i moti del 1830, Alessandro Poerio, insieme al padre fu costretto ad andare in esilio in Francia, dove conobbe illustri letterati ed uomini politici (Cousin, Guizot, Broglie, Humboldt, Chautebriand, George Sand, ecc.) e dove progettò, insieme al padre, la realizzazione di una rivista “Bibliothèque française et étrangere”, con lo scopo di far conoscere i progressi culturali delle nazioni europee e soprattutto dell’Italia in Francia.

Nel marzo 1831 tentò, insieme al Pepe, di organizzare da Marsiglia una spedizione in Italia a sostegno dei rivoltosi italiani. Questo episodio, nonostante il fallimento, provocò il prolungamento del suo esilio a Parigi fino al 1835.

Nell’agosto 1832 si recò, insieme al padre a Londra, allo scopo di trovare degli associati per il giornale che aveva intenzione di stampare. Insieme al padre, il Poerio fece visita a Sir Richard Acton, Lord Russel, Lord Holland, Lady Burghersh, il Duca di Hamilton ed altre personalità inglesi, che si mostrarono ben disposte ad accettare l’invito ad associarsi al giornale.

Dopo una breve tappa a Bruxelles, nell’ottobre 1832 tornò a Parigi; lì, nell’anno 1834, conobbe Niccolò Tommaseo, con il quale instaurò un lungo e duraturo rapporto di amicizia e reciproca stima.

Dopo quindici anni di esilio, nel 1835 Alessandro Poerio tornò a Napoli, dove svolse il lavoro presso la segreteria di una banca e presso lo studio legale del padre. A Napoli riprese lo studio, già iniziato a Parigi, del sanscrito e continuò a comporre versi e studiare i classici e si mantenne in costante contatto epistolare con i maggiori letterati del tempo.

Il Leopardi ed il Ranieri furono i suoi più cari amici nella città di Napoli e con essi spesso andava in villeggiatura sul Vesuvio.

Nell’aprile 1843, dopo ripetute esortazioni da parte dei suoi amici letterati, che ammiravano i suoi versi, il Poerio si decise a far stampare anonime a Parigi, dando l’incarico a due suoi amici che si trovavano allora in quella città, alcune sue liriche, le uniche stampate durante la sua vita. Tutte le altre sue numerosissime poesie sono state pubblicate postume.

Nel 1845, al settimo Congresso degli Scienziati italiani, tenutosi a Napoli, ebbe modo di conoscere Giuseppe Montanelli, che divenne uno dei suoi migliori amici e con il quale egli si tenne in stretta corrispondenza epistolare fino alla morte.

Nel 1847, dopo l’elezione di PIO IX, si recò a Roma, dove incontrò Ottilie von Goethe e Adele Schopenauer.

Nei primi mesi del 1848 collaborò al giornale diretto da Silvio Spaventa “Il Nazionale”. Il 4 maggio dello stesso anno, dopo aver rifiutato l’incarico offertogli dal Governo Costituzionale napoletano di Ministro presso la corte di Toscana o presso la Repubblica Francese, partì al seguito del Pepe a bordo dello Stromboli diretto ad Ancona, in qualità di semplice milite della Guardia Nazionale di Napoli.

Il 13 giugno si recò a Venezia, dove il 27 ottobre diede il suo estremo contributo alla liberazione della città, combattendo a Mestre e riportando gravi ferite che gli provocarono l’amputazione della gamba destra e la successiva morte, avvenuta a Venezia, nella casa dove soggiornava Guglielmo Pepe, il 3 novembre 1848.

Poesie Di Alessandro Poerio

“Chi legga ora le liriche del Poerio (non solo quelle contenute nella raccolta edita nel 1852, ma anche le altre, sparsamente pubblicate postume); chi legga libero dai preconcetti e dall’indiscernimento, onde purtroppo letterati e accademici hanno ora esaltato a poesia le esercitazioni e le sdolcinature, ora rinnegato e spregiato la rara e timida poesia, e sotto nome di storia letteraria introdotto una sequela di frigidi verseggiatori, che travolge seco e nasconde le poche anime commosse; chi procuri di tornare, come si deve, alla semplice realtà delle cose, sarà portato a riconoscere che, dopo il Manzoni ed il Leopardi, nel periodo che va dal 1830 al ’48, l’opera di Alessandro Poerio è, accanto a quelle del Tommaseo e del Giusti, la sola che meriti di suscitare ancora l’interessamento dell’amatore di poesia” Benedetto Croce,
Una famiglia di patrioti.

Dal volgo invida sale

Maraviglia al cantor quand’ei per novi

Spazj libera l’ale:

Oh fortunata Fantasia che trovi

Tante letizie sparte

Per l’Universo e le componi in arte!

Ma quegli in suo secreto

Divina e piagne dell’umane cose;

Nel suo riso più lieto

Sono cocenti lacrime nascose;

Altrui splendido duce

Non gode raggio della propria luce.

E della ignota e cara

Felicità, ch’è suo sospiro eterno,

A lui giunge l’amara

Favola come inesorato scherno;

E non compreso ei solo

Riman che abbraccia delle genti il duolo.

Raro il cor femminile

In tanta altezza con Amore ascende;

E s’anco alla gentile

Che del poeta l’anima comprende

E di sé lo consola,

Ei tutto di piacer trepido vola,

Non s’acqueta, ritiene

Maggior desiro, una celeste forma

A visitarlo viene

Spesso improvviso e via dispar senz’orma;

E dietro alla fuggita

Egli consuma l’affannosa vita.

Ahi prenderebbe a schivo

L’infausto dono dell’arguto ingegno,

Se non fosse nativo

Impeto che diritto al proprio segno

Sì come strale il mosse,

e se l’orgoglio del dolor non fosse.

Vieni, e fidente posa

In quest’anima mia che ti comprende,

L’anima dolorosa.

Parla o taci, qual vuoi,

Sempre, o gentile, intende

Il mio dolore antico i dolor tuoi.

 Se tra la vana gente

T’aggirasti gran tempo assai più solo

Che il deserto silente,

 Se il riso di Natura

Non ti fu tregua al duolo,

Anzi parve insultar la tua sventura;

Vieni, o gentil, deh vieni,

E sentirai se alquanto il divinato

Tuo cor si rassereni,

E pel tuo duolo istesso

Più caramente amato,

Benedirai della pietà l’amplesso.

Da le nubi feconde

Primavera giù piove, e rugiadosa

Da la terra rïesce,

Sovra l’acque si posa,

All’aure fuggitive

Con l’alito si mesce,

Si trascolora di volubil luce,

E in ogni petto vive.

Eppur, mentre ogni petto

Ne bee tanto diletto,

Una mestizia trepida e segreta

Profondamente induce;

Qual giovin donna e lieta

Che, mentre t’empie di dolcezza il core,

Spira l’affanno donde nasce Amore.

Per questa terra d’ubertà felice,

Che facile risponde

All’eterea vezzosa allettatrice,

Mio sguardo erra e soggiorna;

Ma il pensier se ne vola

Assai lungi, e ritorna

Ignudo e disïoso di parola.

Forte m’invoglio, ove riposta valle

Giace, quivi gittar le stanche membra.

La chiusa solitudine del loco

Riposo antico e mia pace mi sembra,

A cui non venni per  girar di calle,

Ma come augello ad inaccesso nido.

Perché sì pieno error dura sì poco?

Del mondo ch’io lasciai dopo le spalle

Pur mi raggiunge il grido.

E in te, riso de l’anno, in te possente

Ebbrezza di Natura, eterne vie

Di futuro dolor trova la mente.

Come fuor de la notte il sonno balza,

E rende al Sol le cose

Cui già la nova tenebria minaccia;

Tale dal verno Primavera, ed alza

La bellissima faccia,

E fa intorno fiorir le piante e l’erbe

Vivaci, inconsapevoli di morte

Brevemente superbe.

Da una stella lontana e come ascosa

Fra gli splendori del notturno Cielo,

Mi viene una pensosa

Gioja, che sboccia come fior da stelo;

E come di confuse alme fragranze,

Empiemi di memorie e di speranze.

S’ella non fosse eterna, io breve cosa,

La crederei   per la mia pace nata,

Tanto cara mi giugne e innamorata

La sua pallida luce.

Finch’ella non tramonti in lei son fiso,

Come tra mille aspetti

Occhio rivolto a desiato viso.

L’altre eteree sorelle,

Assai di lei più belle,

Supreme intelligenze radïanti

Paiono al mio pensier; ma questa sola

Questa viene al cor mio, come Pietade

Che della terra i pianti

Intende e racconsola.

Io men vo lento per la selva romita

Ne’ passi ne’ pensier vagante e solo,

 E mentre stampo di vestigie il suolo

Misuro e calco la trascorsa vita.

Penso quanta stagione m’è già sfiorita,

Penso degli anni e delle cose al volo,

Pien di memorie e di rimorso un duolo

M’assale e sgrida l’anima smarrita.

Non suoni o canti od altra festa

Svia li pensieri con piacente inganno,

Qui è silenzio, che l’alma in sé profonda,

In quest’ombra a me il Ver si manifesta;

Sento le colpe e riconosco il danno,

 Ed un terror m’invade e mi circonda.

Non fiori, non carmi

Degli avi sull’ossa,

Ma il suono sia d’armi,

Ma i serti sien l’opre,

Ma tutta sia scossa

Da guerra – la terra

Che quelle ricopre.

Sia guerra tremenda,

Sia guerra che sconti

La rea servitù;

Agli avi rimonti,

Ne’ posteri scenda

La nostra virtù.

Divampi di vita

La speme latente

Di scherno nutrita.

Percuota gli strani

Che in questa languente

Beltate – sfrenate

Cacciaron le mani,

D’un lungo soffrire

Sforzante a vendetta,

L’adulto furor.

Sorgiamo; e la stretta

Concordia dell’ire

Sia l’italo Amor.

Sien l’empie memorie

D’oltraggi fraterni,

D’iniquie vittorie

Per sempre velate,

Ma resti e s’eterni

Nel core – un orrore

Di cose esecrate;

E, Italia, i tuoi figli

Correndo ad armarsi

Con libera man,

Nel forte abbracciarsi

Tra lieti perigli

Fratelli saran.

S’io potessi levarmi ove l’idea

Qual chiara stella di Beltà m’invita,

Ed a ciò che nell’anima si crea

Spirar l’esterna vita,

Forse dal suon del disioso canto

Verrebbe amor nell’anime sorelle;

Forse le sforzerei talvolta al pianto

In cui si fan più belle;

Forse benedicendo al mio dolore

N’avrian dolcezza, e la parola mia

Lieta del suo passar di core in core

A me ritorneria.

Pur così com’ io dico, oltre la scorza,

Un’ alma sola penetri, e discenda

Divinatrice di secreta forza

Ed il mio cor comprenda;

Crescerà dentro il divinato affetto,

Sgorgherà come dal tentato suolo

Sgorga l’onda nascosa, e l’intelletto

Con più lontano volo

Del Vero la recondita bellezza

Vagheggerà più fiso, e più profonda

Fia di mistero in sì lucente altezza

La gioja vereconda.

Quella pace invocata e sempre invano

Sì ch’era fatta disperata cosa,

Subitamente a me vien da lontano,

E nel profondo del mio cor si posa.

Una serena voluttà tranquilla

M’empie e si spande sulle cose intorno,

Non qual luce che abbaglia e disfavilla,

Ma quasi albor di temperato giorno,

Non è obblio del dolor che mi percosse,

Non è speranza di caduco bene;

È un arcano sentir, come se fosse

Arra del premio di cotante pene.

Quel Ver che di bellezza e d’amor s’armi

Vince ogni dubbio che nel cor serpeva,

Quel superno favor che a visitarmi

Scende, in altezza d’umiltà mi leva.

S’anco nel verso mio non si trasfonda

Questa dolcezza che il mio sen penètra,

Pago sarò che tacita m’ inonda;

Abiti meco e spezzerò la cetra.

Nel membrar la soave Primavera

Degli anni miei, quando il mio cor s’apriva;

Quando l’intatta Fantasia fioriva

Liberamente di ricchezza intera;

Quando la speme, la gentil foriera

Delle gioje promesse in me gioiva;

E mentre tutto ardea di luce viva,

Secreto senso l’Universo m’era;

Già non m’assale disperato il duolo,

Ma della fuga di sì dolci larve

Una mestizia senza fin pensosa.

E talor benché tardo e stanco e solo,

Sembrami posseder quel che disparve;

Tale riveggo ogni perduta cosa.

Così cantasti del mortal dolore,

Come colui che da pietà costretto

Non può celar l’amore

E le vigilie del pensoso petto.

Vien dal profondo e trema di desiro,

E ferve d’intelletto il tuo sospiro.

Ma perché d’un pensier  ti fai divieto

Che solo ogni dolor compone in pace,

A intentabil secreto

Movendo assalto con parola audace?

Se n’on t’alza la fede onnipotente,

L’ingenita virtù porti tua mente.

Interminato immaginar sereno

D’ignote altezze ne largì Natura,

E a te piovea nel seno

Sua provvedenza splendida e sicura.

Deh! Non metter  le mani ingiurïose

Nel vel contesto di sì vaghe cose.

Ma come il raggio che dovunque offende,

Si torce in alto ed alla patria torna,

Tale il tuo verso ascende;

Ed il tuo disperar così si adorna

E trasfigura di beata luce

Che al Ver, cui chiami errore, altrui conduce.

E manda a’ tuoi lamenti innamorati

L’eterno verdeggiar  dell’altra sponda

I suoi spirti odorati.

Spesso  l’anima mia si fé profonda

Di gioja nel tuo carme, e sol mi dolsi

Che dall’affanno tuo pace raccolsi.

O anima ferita

 Da la discorde vita,

Vaga qual eri de l’eterna idea

Forse più ch’altra fosse anima umana,

Meritamente, a breve andar, ti parve

La terra amara e vana

Al paragon di tue beate larve.

E tu, Giacomo, tu gloria secura,

Tu maraviglia dell’età futura,

Passasti in fra la gente oscuro e solo.

Ma poi che accolse le tue membra vinte

 Dalla invocata morte il freddo avello,

Pari a sublime sprigionato augello,

S’alzò tua fama a volo.

Alla vergine ignara

Cui tenta il sen d’amor cura segreta,

La tua canzon fu cara;

E quei che stanca nell’eterne cose

La mente irrequieta,

E l’esule affannoso a cui ritorna

Più bella della  patria ognor l’imago,

E qualunque erra qui misero e vago

D’un ben che gli traluca, e non aggiorna,

Sentîr l’imperio del gentil tuo verso;

 Ché tu fosti, o cantore,

Intelletto e pietà d’ogni dolore.

Dimmi, e da quelle note

Sì meste, in che de’ tui

 E degli affanni altrui tanto sospiri,

Dimmi, com’esser puote

Ch’aura di greca giovinezza spiri?

E lamentavi che la tua perisse

Come vecchiezza. Il canto

Che la lesbia fanciulla,

Abbandonata amante, ultimo disse,

Tu divinasti con più grave pianto;

Mai di conscie faville

A te non lampeggiar care pupille.

O spirito salito

All’Amore infinito,

Chi ti persegue d’una vil rampogna,

Perché mentre il mortal vel t’involse,

Disdegnasti menzogna,

E con fulgido verso in su lo schietto

Labro sempre venia l’ intimo petto?

Generoso infelice,

Maledetto colui ch’empio ti dice!

Se per deserto strano

Il dubbio ti traea senza riposo,

Moria tremulo e lento

In arcana mestizia il tuo lamento.

Per precipite via

Se più del sacro Ver givi lontano,

Non fu bestemmia il disperato accento;

E l’affetto il volgea in armonia

 Che al Cielo risalia.

Ed oh che santa carità ti prese

De la nativa terra!

Ed oh come irato il carme

Con impeto di guerra

Suonò vendetta ed arme!

Pietosamente a noi per fermo il Cielo

Te concedeva quando

(Spettacolo miserando)

D’ozïosa sventura Italia bruna,

Più non parea nessuna

Sentir vergogna di sofferte offese,

Incitator d’imprese

Che faccian forza a così rea fortuna:

Faranno, e allor che in libertà riscossa

L’altera donna fia cha in basso è volta,

E a cui sacrasti ingeno

E duolo e speme e sdegno,

Te certo ella porrà splendido segno

Fra i glorïosi che le infuser possa,

Se, fatta ignava e stolta,

Servitù non l’aspetti un’altra volta.

Era deserto il tempio ed una sola

Donna pregava con sì intenso affetto,

Che dal suo labbro non uscia parola

Ma il volto rilucea dell’intelletto.

 

E nullo suono che da labbro vola

Porìa dir la beltà di quell’ aspetto;

E la memoria mia si disconsola

Di non serbarlo forse intero e schietto.

 

E pace all’alma mi venia da quella

Vista, e’l dubbio che suol sì acutamente

Dentro me ragionar m’era lontano.

 

Impossibil  parea che così bella

Crëatura, e degli occhi e della mente

Così perduta in Dio, pregasse invano.

(Dicembre 1847)

Bevve la terra italica

Del vostro sangue l’onda,

E piova più feconda

Giammai non penetrò.

Voi con ardir magnanimo

Di sacrificio intero,

Voi preparaste il Vero,

Il Ver che a noi spuntò.

 

Alziam concordi il cantico

Alla virtù di Pio,

Nel qual rivela Iddio

Questa novella età:

Ma pera chi dimentica

Quei che con largo affetto

Fer della vita getto

Per nostra libertà.

 

Ei d’alta, di profetica

Morte per noi moriro;

Con ultimo sospiro

Vòlto a’ futuri dì.

Ei sien subietto fervido

Di splendide canzoni,

Fin che nel mondo suoni

La lingua alma del sì.

 

Le tombe in cui si giacciono

L’ossa compiante e care

Sien ciascheduna altare

Di cittadino amor.

Innanzi a questi martiri

Prostatevi silenti,

Ma a sorgere frementi

Di bellico furor.

 

Questi dal nome italico

Inseparati nomi,

Che dall’oblio non domi

Ne’ secoli saran;

Questi son segni fulgidi

Sull’inclite bandiere

Che incontro allo straniere

Vendicatrici andran.

Dammi che l’alma mia non giaccia oppressa

Di dolor vano sotto inerte pondo,

Dammi che sorga alfin dal suo profondo

Piena del Cielo e conscia di sé stessa.

 

Dà che la forza in lei sì addentro impressa

Imprimer possa nell’esterno mondo;

Né trovi l’occhio suo menato a tondo

Solitudine immensa ed inaccessa.

 

Ahi! Lo spirto che val se fuor non spira?

La non comunicabile ricchezza

Del pensier disïoso angoscia tale

 

Gli è, che povero e nudo esser desira,

Perder senso d’amore e di bellezza,

Chinar l’avido sguardo e chiuder l’ale.

Quando il giorno dechina

Ascendo là donde si scopre il mare

Con più desio che all’ora mattutina,

Il saluto del Sol quand’egli appare

M’è caro sì, ma sua dolcezza è vinta

Da quella dell’addio nel tramontare.

 

E poi che in tutto s’è celato il sole

Ancor dipinte lascia

Di croco e d’or, di rose e di viole

Le lievi nubi per l’aere vaganti.

 

E’ l raggio estremo che quelle colora

È più gentil di quanti

Ornan la fronte della nunzia Aurora

Così l’umana gioja

Più dolce è sempre allor che par che muoia.

O Venezia, mai più l’intimo canto

Sgorgommi, come in te da vivo affetto!

Mai più sentii la voluttà del pianto

Come al tuo dolce aspetto!

Tu occorri a me quasi benigna amica

Conscia gentil d’ ogni dolor secreto

Dell’anima profonda; e par che dica:

– Ancora esser puoi lieto –

Una quïete nel mio cor s’induce

Ch’io perduta credei ne’ lunghi affanni;

E mi circonda una serena luce

Al tramontar degli anni.

Non gir vagando intorno, o Fantasia

Con ingegnoso errore;

Il misero goder nel suo dolore

Lascia all’anima mia.

 

Sei vanitade che s’aduna e solve

Come nubi leggiere;

Lasciami del dolor che in me si volve

Il misero godere.

 

Tu non m’inganni e sovra l’ali tue

Non s’abbandona al volo

Il cor, cui sola conceduta fue

La voluttà del duolo.

 

D’ogni del tuo tesor gemma più rara

Che profferisci lieta

M’è l’invocata lacrima più cara

Che l’occhio mio disseta.

O luce, agli occhi vita,

Casta nutrice dell’uman pensiero,

Che d’immortale gioventù vestita,

Spontanea rendi immagine del Vero,

Quando per l’arco dell’etera volta

Scendi amorosa a visitar la terra,

L’anima come del carcere tolta,

Trepida ad incontrarti si disserra.

Maraviglia aspettata, eppur novella,

Quanto nell’apparir, quanto se’ bella!

 

Il sereno Oriente

Dove dapprima è tua beltà dischiusa,

S’imporpora così come fiorente

Virginea gota di rossor soffusa.

Poi trïonfando nell’immenso agone

D’affocato splendor così t’accendi,

Che imago e paragone

E desiderio e Fantasia trascendi.

Salve divina, del Signor de’ Cieli

Riflessa gloria, che il mondo riveli!

 

O rapida de’ regni

Dell’unico Monarca vïatrice,

In te conosco i benedetti segni,

O dell’antica notte vittrice!

Primogenita tu della parola

Di Dio, che seco fosti all’opra eterna,

Sotto l’occhio di Lui vigili sola

Quant’Ei volle, creò, nutre, e governa,

E sovra l’ali tue nostro intelletto

S’alza dell’Invisibile al concetto.

 

Virtù sparsa e secreta

Donde s’aduna il Sol, donde s’innova,

Chi ti riceve in cor come il poeta?

Chi più s’irriga di tua dolce piova?

Larga t’apristi nel suo petto via,

E abbondante da quello inno ti suona,

Che perpetuo si mesce all’armonia

D’ogni altro canto al quale ei s’abbandona.

Simile al fior che al grande astro si gira,

L’alma sua vereconda a te sospira.

 

Come tu varïando

Nel settemplice raggio t’incolori,

Così da te spirato egli tentando

Va le gioje dell’estro ed i dolori

Con la man sulla  corda fuggitiva,

Finché non trova la cara melode

In che il soperchio del sentir deriva;

E tener l’alto delle cose e’ gode,

E guatar lungi, come tu de’ monti

Più volentier ti posi in sulle fronti.

 

Sacro mistero induce

Nella sua mente il disparir del giorno,

Quando ti celi e morir sembri, o luce,

Ma lasci i messaggier del tuo ritorno.

La circondante notte a lui vien grata,

Che s’ingemma di te, quantunque bruna,

Allorché dalle stelle ardi velata

D’infinita distanza, e dalla luna

Fisa in te se’ rifratta, e sovra l’onde

Ti piaci di tremar chiare e profonde.

 

Notte gli occhi del Greco

Che dell’ira d’Achille il mondo empìo,

Notte premeva inconsolata; e cieco

L’Anglo che osò cantar quella di Dio

Per la colpa feconda de’ parenti

Primi nostri, dettava alle figliuole

Dal suo tacito labbro ancor pendenti;

Ma voi mirato avevano, o Luce, o Sole,

E dal memore seno in voi securo

Libero il carme uscia non perituro.

Forse poeti splendidi

Succederanno al pianto

Di nostre vite languide,

Forse opreran col canto.

Audace il lor pensiero

E gravido del Vero

Per la profonda età,

Qual occhio inevitabile,

Lungo cammin farà.

 

A noi confonde l’anima

Un’intima sventura,

Che di rimorso e tedio

S’aggrava e di paura.

Nel seno del poeta

Non s’agita il profeta,

Gli è chiuso l’avvenir;

In lui de’ morti secoli

S’accumula il patir.

 

Sente l’affetto surgere,

Ma un gelo antico affrena

L’onda sepolta, e correre

Non lascia la sua piena.

Pur ora il riconforta

Natura ch’era morta

Per lunga servitù,

Né del desio nell’impeto

È lena di Virtù.

 

Qual colpa inespïabile

Angoscia in noi risiede;

Essa d’Amore al cantico,

All’inno della Fede

Il suo lamento infonde,

Simile a gemebonde

Note d’ascoso augel

Tra le campagne floride

Sotto l’azzurro ciel.

 

Ma il dolor nostro è simbolo

Di tarda età caduca,

Ma i tempi si consumano,

Ma forza è che riluca

Sulla futura gente

Siccome su potente

Progenie un nuovo Sol;

Augurio ed infallibile

Promessa è il nostro duol.

 

E d’alto infaticabili

Veggenti i sacri vati

Si curveran com’angeli

Con occhi innamorati,

versando in ampj giri

Un’Armonia che spiri

L’acuta vision

Sovra la terra; e gli uomini

Commoverà quel suon,

 

Come nell’ore vergini

Del giovinetto mondo,

Quand’ei devoto e semplice

Li riverì profondo,

E nel balzar veloce

Dell’inspirata voce

Conobbe con terror

La prorompente immagine

Del Verbo creator.

Non fur di Giovinezza

Più rugiadose mai, né più odorate

Membra, né forme di schietta Bellezza

A più secreta Leggiadria sposate.

Ella si nacque del Tamigi in riva,

Ma d’Italia l’amor come Natura

Nell’alma le fioriva.

 

E venne la gentile,

E in Roma i dì traea meravigliando,

E nel lieto suo petto giovenile

Quella severa maestà temprando.

Così scherzar s’ardiva in sulla soglia

Delle vetuste e dell’eterne cose

Senza terror, né doglia.

 

E sovente si piacque

Per li campi cercar la giovinetta

Il fosco Tebro, e come quello l’acque

Contenute da margini saetta,

Tal costei della man sotto l’impero

Agitar si godea la vïolenta

Fuga del suo corsiero.

 

Oh quanto le giovava

Errar col fiume, accompagnar le sponde!

Qui tutta nel pensar s’abbandonava;

Qui dal suon cupo delle torbid’onde

Mirabile diletto ricevea;

Ma con l’onde seguenti ahi l’immaturo

Suo Fato si volvea!

 

E ruinò veloce,

E’l bel corpo con l’acque si confuse;

Gli occhi alzarsi e le braccia, uscì la voce,

Ma il flutto e’l mondo sovra lei si chiuse;

E muto il suo perir fu d’ogni traccia.

Raggio di Sol non venne in sull’eterno

Pallor della sua faccia.

 

I’ non la vidi mai

Splender di vita, ma nell’alto petto

Viva e morta la vergin portai,

Ma la perdei, ma nel dolor l’affetto

Mi si rivela, e prego: ove si giacque

Miseramente l’insepolta spoglia

Passin più lievi l’acque.

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